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venerdì 28 novembre 2014

Intervista al regista Mario Caiano, a cura di Matteo Mancini.


INTERVISTA A MARIO CAIANO

A cura di Matteo Mancini.

Ho il piacere di ospitare sulle pagine del mio blog un grande regista italiano che ha fatto la storia del cinema di genere, soprattutto nell'ambito dello spaghetti-western e del “poliziottesco”. Sto parlando di Mario Caiano, regista classe '33 con circa trenta pellicole all'attivo, girate tra il 1962 e il 1977, precedute da un'esperienza decennale da aiuto regista al servizio soprattutto di Sergio Grieco (dieci collaborazioni) e Carlo Ludovico Bragaglia (quattro collaborazioni) e culminata con una serie di tv-movie diretti a partire dai primi anni '80 fino alla meritata pensione.
Quale formato migliore di un'intervista per ripercorrere la lunga carriera del nostro? Aneddoti e ricordi raccontati direttamente dall'interessato, che mi ha gentilmente offerto una parte del suo tempo libero per rispondere ai quesiti di seguito riportati. Peraltro sottolineo subito che Caiano è fresco dalla redazione dell'autobiografia MARIO CAIANO – Autobiografia di un regista di B-Movie, uscita nel luglio del 2014 per le Edizioni Il Foglio Letterario di Piombino. Inutile sottolineare che le risposte alle domande che vi apprestate a leggere costituiscono parte integrante del volume, che vi consiglio pertanto di acquistare per saperne di più e per conoscere una parte di Caiano che, forse, non emerge dalla visione dei singoli film e neppure da questa intervista.

AVVERTENZA: CHI LEGGE QUESTA LUNGA INTERVISTA è INVITATO A EVITARE DI CADERE NELL'ERRORE DI PENSARE DI AVER AVUTO DELLE ANTICIPAZIONI SUL TESTO DELL'AUTOBIOGRAFIA DI CAIANO, IL CUI CONTENUTO è CONCENTRATO SU TEMATICHE ULTERIORI RISPETTO A QUELLE SOTTO RIPORTATE.

1. 
Veniamo adesso all'intervista, innanzi tutto grazie per aver concesso la sua disponibilità così da poter compiere un lungo viaggio indietro nel tempo. Prima però di rispolverare il passato, parliamo dell'autobiografia che ha pubblicato da pochi mesi e che ho letto e recensito qui sul blog.
Quando è maturata l'idea di scriverla e quali sono state le ragioni che l'hanno portata a compiere questo passo?

M.C.:
L’idea di scrivere qualche ricordo della mia attività è nata forse un anno dopo la mia decisione di non lavorare più. Forse mi annoiavo, forse i ricordi esondavano…Le ragioni? Sempre le stesse: mi è sempre piaciuto raccontare, anche a me stesso.


2. 
A differenza di altre autobiografie, ho notato una struttura molto personalizzata, quasi come se volesse redigere un romanzo sui viaggi compiuti e sulle esperienze di vita maturate grazie al suo lavoro di regista, piuttosto che concentrarsi sugli aneddoti cinematografici legati alla produzione e alla realizzazione dei suoi film o ai rapporti con i singoli attori. Del resto lo stesso percorso espositivo che ha seguito non è poi così strettamente legato a uno sviluppo storico-cronologico, ma è più connesso alle sensazioni, ai sapori e alle emozioni vissute nel corso della sua carriera. Ho avuto quasi l'impressione che tale decisione sia il frutto di un approccio molto umile, un po' come se lei non amasse la maggior parte dei suoi film. C'è qualcosa di vero in questa mia ultima frase oppure ci sono altre ragioni che l'hanno guidata in questo modo?

M.C.:
E’ vero, non ho mai amato la maggior parte dei miei film, anche se ho amato molto il mio lavoro. Poi, nel ricordo di un film c’è sempre molto altro: persone, paesaggi, atmosfere, stati d’animo. E’ questo che mi piaceva raccontare, non la tecnica delle riprese, il rapporto con gli attori e i produttori e noiosaggini del genere.


3.
Come è giunto a scegliere le Edizioni Il Foglio Letterario di Piombino e che rapporti ha avuto con l'editore Gordiano Lupi?

M.C.:
Giordano Lupi lo conosco solo per e-mail, mi sembra un’ottima persona tanto più che è stato lui a propormi di pubblicare il libro. Forse su suggerimento di un giornalista del “Manifesto”, Castellano.


4.
Ha presentato il volume o conta di fare delle presentazioni nei prossimi mesi? Come hanno reagito i suoi fan all'uscita del testo?

M.C.:
Non so se ho fan oltre a due fratelli falegnami di Vicenza che mi telefonano spesso per comunicarmi che hanno trovato un’edizione giapponese di Una Bara per lo Sceriffo o cose del genere. Sono stupendi. Un certo signor Pallanch, di un qualche organo istituzionale del cinema, mi ha detto che vorrebbe fare una presentazione del libro il prossimo inverno.

La copertina dell'autobiografia del regista.

5.
Bene. Veniamo ora a ripercorrere la sua carriera. Compiamo un balzo nel passato, quando il cinema italiano era in grado di sfidare quello americano. Naturalmente non gli farò domande su questioni su cui si è soffermato nel volume, perché non voglio rovinare la sorpresa di chi lo acquisterà, spero anche grazie a questa intervista.
Dunque, dopo esser entrato nel mondo del cinema e aver fatto un lungo apprendistato alla corte soprattutto di Grieco e di Bragaglia, quale aiuto e assistente (come ha ben spiegato nel testo), debutta giovanissimo come regista con un poker di peplum girati tra il 1962 e il 1964, dirigendo attori simboli del genere come Gordon Scott o Richard Harrison ovvero come l'emergente Claudio Undari che sembrava potesse diventare un attore simbolo del western all'italiana. Ha lavorato anche con Giuliano Gemma nell'avventuroso Erik il Vichingo. Anche se si tratta di pellicole, forse, non particolarmente idolatrate, che ricordi ne conserva?

M.C.:
Ho un ottimo ricordo di quando facevo l’aiuto, era tutto molto più facile e avevo meno responsabilità. Per esempio, ricordo con grande piacere Il Barbiere di Siviglia con Mastrocinque, un gran signore, un intellettuale. Grieco poi è stato quello che mi ha insegnato tutto, un amico, un maestro e un esempio di come si sta sul set. I peplum ( o si dovrebbe forse dire pepla) mi divertivano, soprattutto il primo, Ulisse contro Ercole perché è stato il film del mio debutto come regista e potevo inventare quello che volevo. E poi all’università ho fatto filologia classica e archeologia, quindi una certa attinenza c’è. Di fare l’archeologo avrei ancora voglia, forse se potessi ricominciare tutto daccapo…


6.
Al di là dei debutti con il peplum, lei è anche il primo regista italiano a cimentarsi con lo spaghetti-western. Collabora inizialmente con gli specialisti spagnoli, scrivendo il soggetto di Cavalca e Uccidi di Borau e de I Tre Implacabili, quest'ultimo poi elaborato dallo specialista Josè Mallorquì e diretto da Joaquìn Romero Marchent (un regista, a mio avviso, da rivalutare) per la coproduzione costituita dalla PEA di Alberto Grimaldi e dalla Copercinese di Eduardo Manzanos. Si tratta, per l'epoca, dell'elite, anche perché Marchent è l'unico a fare western di un certo livello tra il 1961 e il 1963. Pressoché con il medesimo cast tecnico dirige Il Segno del Coyote, terzo episodio di una mini-saga ricalcata sul personaggio di Zorro e ideata a metà anni '50 dall'accoppiata Mallorquì-Marchent. Quest'ultima è una pellicola di difficile reperibilità che non andò bene al botteghino tanto che si dice di un certo diverbio tra lei e Grimaldi, con quest'ultimo insoddisfatto degli incassi. Cosa ricorda di questi specialisti spagnoli e di questi film.

M.C.:
Mallorqui non l’ho mai conosciuto. Marchent era bravo ma si sentiva bravissimo e alla Copercines era considerato una specie di padreterno. Il Segno del Coyote è andato male perché era una scopiazzatura sfacciata di Zorro. Il protagonista era un ex torero messicano, Fernando Casanova olè, la protagonista era l’amichetta del produttore, lo scenografo era il fratello dell’amichetta e così via ma non ricordo di aver mai litigato con Grimaldi che di cinema, almeno all’inizio, non sapeva niente, gli ha insegnato tutto mio padre. Il suo primo ufficio era una stanza in subaffitto dalle parti della stazione Termini. Odorava sempre di soffritto (la stanza, non Grimaldi) e veniva ad aprire la porta la padrona di casa in pantofole e vestaglia.

La locandina del primo Spaghetti Western realizzato.

7.
Dopo l'episodio burrascoso legato alla co-regia de Il Segno di Zorro, ben descritto nel testo, giunge forse la sua grande occasione. Il duo Papi & Colombo, della Jolly Film, in difficoltà nel gestire lo spagnolo Ricardo Blasco in netta crisi nel dirigere le scene di azione di Duello nel Texas, la chiama per risolvere l'impasse del regista affidandole il compito di girare alcune sequenze. Ne esce fuori uno dei più interessanti western pre-leoniani, peraltro con una sotto trama gialla abbastanza originale e un incasso che lo eleva a terzo spaghetti-western più visto nella stagione 1963. Nel cast compare ancora una volta Richard Harrison, anche se a mio avviso non ancora a suo agio col western.
C'è chi elenca questa pellicola tra i suoi film, come si legge nella quarta di copertina della sua autobiografia, chi invece, come Roberto Poppi, lo omette del tutto non indicandolo nella sua produzione. Cosa può dirci in merito e quanto del suo c'è in questo film?

M.C.:
Mio padre era il distributore del film e consigliò a Papi e Colombo (due personaggi gelidi) di chiamarmi per girare le scene che Blasco (chissà perché) non aveva girato. Girai tre o quattro giorni, forse venti minuti di film, per questo non deve entrare nella mia filmografia.


8.
In questa prima parte di carriera, credo di poter dire, suo padre Carlo ha un ruolo determinante. Quanto l'ha aiutata e come lo ricorda, cinematograficamente parlando?

M.C.:
Era un idealista esperto ma un po’ ingenuo. Mi ha introdotto nel cinema facendomi fare l’assistente volontario con Grieco in “Non è vero ma ci credo” . Poi sono andato avanti per conto mio.


9.
L'ottimo lavoro in Duello nel Texas e soprattutto un indubbio talento nel dirigere le scene di azione, tanto da esser considerato all'epoca forse il migliore regista in circolazione in Italia, portano Papi & Colombo a promuoverla loro regista di punta. I due la preferiscono a Sergio Leone, e non sono i soli a pensarla alla stessa maniera (anche Domenico Palmara rifiuta il ruolo di Ramon offerto da Leone per fare il suo film), che viene anch'egli prodotto, ma con un budget assai inferiore rispetto a quello che viene messo a disposizione per il suo film. Esce così Le Pistole non Discutono, western che nasce con la speranza di sbancare i botteghini e che lei porta in scena con grande talento, avvalendosi di professionisti di primo livello come Carlo Simi alla scenografia, Enzo Barboni alla fotografia, Ennio Morricone alla colonna sonora, tanto da realizzare, a mio avviso, uno dei tre migliori spaghetti-western pre-leoniani in assoluto. Non vorrei sbilanciarmi, ma secondo me potremmo indicare questo film tra i suoi cinque più riusciti tanto che meriterebbe di essere rivalutato a dovere.
Nel suo volume ha già parlato del protagonista Rod Cameron e di come fu scelto, vengo qua a chiederle invece un pensiero su Horst Frank che fornisce un'intensa performance alla Kinski nei panni dell'antagonista. Lo scelse direttamente lei o gli fu imposto dai coproduttori tedeschi?
Un'altra curiosità è legata alla scelta del titolo adottato, che trovo molto avanti nel tempo rispetto ai più banali titoli in voga in quegli anni, almeno prima dell'avvento di Leone. A chi è riconducibile la scelta?
Curioso infine trovare tra i nomi degli autori della sceneggiatura quelli di Castellano & Pipolo, che faranno poi la fortuna del cinema comico. Cosa può dirci del rapporto avuto con loro.

M.C.:
Il nome del film si deve a Castellano e Pipolo, due amici con i quali ho collaborato senza problemi. Che il budget fosse superiore a quello di Leone non sono sicuro, mi sembra che fossero alla pari. Andammo insieme, Sergio e io, a Monaco a scegliere gli attori dei rispettivi film, lì conobbi Horst Frank, un Kinski più bravo e meno scemo.
Palmara ha raccontato molte sciocchezze come, per esempio, che fosse stato lui a scegliere il ruolo nel mio film: probabilmente Sergio non si decideva, non era convinto e Mimmo voleva stringere. Ha raccontato pure di essere andato da Colombo, scontento dei giornalieri di Sergio, per convincerlo a non interrompere le riprese. Sciocchezze, Colombo non lo avrebbe nemmeno ricevuto. Ma si sa, gli attori…


10.
Che tipi erano Papi & Colombo? Si legge di un loro pessimo rapporto con Sergio Leone, tanto che lo volevano cacciare prima che terminasse le riprese de Per un Pugno di Dollari, perché troppo rivoluzionario nella messa in scena. Alla fine finiranno anche per farsi causa a vicenda in tribunale. Hanno creato problemi anche lei, visto che poi ha cambiato produttori?

Non ho avuto problemi con i due, semplicemente sono rimasti delusi dal fatto che il mio film, pur avendo avuto ottime recensioni, non ha incassato un mare di soldi. Erano due persone aride e piuttosto scostanti, si capisce come Leone, un colosso al loro confronto, non ci andasse d’accordo.


11.
A questo punto la sua carriera è quasi a una svolta, anche se il successo improvviso di Leone forse la penalizza. Che sensazioni ha provato quando a visto Per un Pugno di Dollari avere il successo che ha avuto? Ne è stato felice o gli è venuta un po' di amaro alla bocca? Come si comportò Le Pistole non Discutono ai botteghini?

L’invidia è uno dei pochi difetti che non mi riconosco e poi volevo molto bene a Sergio. Le Pistole... ebbe buone recensioni ma non incassò molto, allora. Ma dai dati della Siae si evince che lavora bene nel tempo, tanto è vero che lo replicano con una certa frequenza in TV.

Rod Cameron e Domenico Palmara in azione.

12.
Siamo arrivati al 1965, in Italia sta prendendo piede, grazie soprattutto a Mario Bava, Riccardo Freda e Antonio Margheriti, un nuovo genere: il gotico all'italiana. Si tratta di horror molto legati alla tradizione narrativa dei primi dell'ottocento, molto apprezzati all'estero soprattutto dopo il successo internazionale ottenuto nel 1960 da La Maschera del Demonio di Bava.
Decide anche lei di tuffarsi in questa avventura scrivendo e auto producendosi Amanti d'Oltretomba. Il film non ha un successo paragonabile a quello dei western, mi risulta 154 milioni di incasso, però si rivela di grande qualità, al punto da poter essere inserito in alta posizione in un'ipotetica classifica dei migliori gotici. Propone come attrice protagonista la la star queen del genere ovvero l'irlandese Barbara Steele. Come si trovò a lavorare con lei e come arrivò a sceglierla?

M.C.:
Ho avuto una precoce attrazione per l’horror fin da quando, nel ’43, durante le lunghe ore del coprifuoco, lessi d’un fiato i racconti de E.A.Poe. Poi m’è passata. B.Steele era un’ottima professionista, con lei ho avuto un buon rapporto e mi dicono che ancora si ricorda con piacere di me.


13.
Il soggetto del film invece è incentrato sul tema del doppio, vero e proprio sottogenere horror legato al tema delle bellezze perdute, particolarmente in voga in quegli anni. Un genere quasi a confini della fantascienza, sulla scia de Il Diabolico Dottor Satana di Jess Franco a sua volta debitore di pellicole francesi e tedesche, caratterizzato da esperimenti scientifici condotti da medici pazzi e con un certo gusto necrofilo. Barbara Steele, per questo, è chiamata a ricoprire due ruoli ed è affiancata da un altro grande del cinema bis: Paul Muller, attore feticcio proprio di Jess Franco. Che rapporti ha avuto con Muller e ha mai conosciuto Jess Franco, visto che ha collaborato con i suoi due maestri (Mallorquì e Joaquìn R. Marchent)?.
Come elaborò la sceneggiatura, si ispirò a fonti narrative e che rapporto ha con la narrativa del terrore?

M.C.:
Ero un cinematografaro, non un cinefilo, perciò di Jeff Franco non sapevo nulla. Ho amato cose come Il Monaco di Lewis, Il Manoscritto Trovato a Saragozza, e poi Il Castello d'Otranto e, su un altro versante, Lovecraft, S.King, la celeberrima antologia di Fruttero e Lucentini ecc. C’erano tante letture dietro la sceneggiatura di “Amanti d’oltretomba”. Muller era una persona gentile, triste, che per anni mi telefonò una volta al mese, così come Marino Masè, altra persona triste e gentile.


14.
Nonostante il buon lavoro con Amanti d'Oltretomba non si è più interessato al genere horror, fa eccezione il film Ombre Roventi che subì però l'onta dell'arresto di William Berger e della sua compagna, tanto da essere semisconosciuto. È frutto del caso oppure si trattava di un genere che non sentiva troppo nelle sue corde?

M.C.:
Semplicemente, il genere cessò di attrarmi. Bill Berger era un amico, forse rovinato da Leary e dal Living Theatre. Comunque l’arresto suo e della moglie fu uno scandalo. La storia di Ombre Roventi è strana: fondamentalmente si trattò di una rapina fatta da un organizzatore senza scrupoli a un giovanotto sprovveduto. Basti pensare che fino a un’ora prima dell’inizio delle riprese il protagonista doveva essere un grosso attore americano che sparì nel nulla e fu sostituito da Beger che si trovava al Cairo per un altro film.

Il primo horror firmato da Caiano.

15.
Tenta di percorrere anche la via delle spy story, altro sottogenere che cerca a metà anni '60 di affermarsi, ma con un successo e una riscoperta odierna non ancora maturata a dovere, complice, probabilmente, un legame troppo marcato con la serie James Bond. Si approccia persino alla commedia. Il suo contributo si sostanzia con Per Favore... non Sparate col Cannone e con Le Spie Uccidono in Silenzio, due pellicole non di grande successo, assai poco, ma che le danno modo di lavorare con quello che ha definito uno degli attori con cui ha fraternizzato di più, cioè Frank Wolf. Nella seconda pellicola invece schiera tra gli attori il legnoso canadese Lang Jeffries.
Che risposta dette il pubblico a questi film? Il secondo fu anche esportato in molti paesi anche se oggi in pochi lo ricordano quando parlano della sua produzione.

M.C.:
Le Spie… mi fu commissionato a Giorgio Venturini. Lo scrissi pensando soprattutto alla storia del Vecchio della montagna e alla setta degli haschashin, poi lo spunto si perse per strada.
Per Favore non Sparate… era un’idea mia che mi piaceva, ma Continenza non aveva più voglia di lavorare e Mondello, il produttore, non aveva una lira.


16.
Torna al cinema western, forse per gli incassi che era capace di garantire. Era insoddisfatto dei risultati ottenuti con gli altri generi?
Fatto sta che si scatena dirigendo una pellicola sull'altra. In tre anni gira cinque western non sempre disponendo di budget all'altezza e, a mio avviso, quasi tutti inferiori rispetto a Le Pistole non Discutono. Il primo è Una Bara per lo Sceriffo (1965) dove fa debuttare nel genere l'indolente brasiliano Anthony Steffen che poi diverrà un vero e proprio mattatore (interpreterà più di 20 western in circa sette anni). Che ricordo ne conserva e come era sul set?
Il copione lo scrive il regista Guido Malatesta, assai più indicato per peplum e cinema di avventura, e non compare il suo nome sulla sceneggiatura: è uno di quei film su commissione voluti da Manzanos e girati con poco coinvolgimento personale come dimostra il copione piuttosto ricalcato sui canovacci del revenge movie e del pistolero che vuole entrare in una data banda per sterminarla dall'interno?

M.C.:
Il più delle volte non si sceglieva quale film fare. I produttori sceglievano in base alle richieste dei distributori, cioè del botteghino. Malatesta era un amico di Mondello, il produttore, glielo avrà scritto per poche lire, così andavano allora le cose. Avevamo tutti bisogno di soldi, ne giravano pochi e quei pochi venivano dagli esercenti, gente poco raffinata.
Steffen era un bravo ragazzo, andava bene a cavallo ma amava la sua immagine riflessa dallo specchio sopra ogni altra cosa.


17.
I due western successivi sono, se vogliamo, persino meno noti di Una Bara per lo Sceriffo, ma sempre con attori specialisti del genere. Si tratta di Ringo il Volto della Vendetta (1966) e Sette Pistole per un Massacro (1967). Il primo è un apocrifo che ripropone Anthony Steffen come protagonista, sempre prodotto da Manzanos ma questa volta il copione porta la sua firma e persino quella di Duccio Tessari, eventualità quest'ultima che mi pare alquanto strana. Si ricorda di un coinvolgimento di Tessari?
La sceneggiatura è più elaborata rispetto a quella di Una Bara per lo Sceriffo, propone una lotta fratricida per la conquista di un tesoro di cui i rivali di Steffen, i grandi Fajardo e Armando Calvo, possiedono parte della cartina tatuata sulla schiena. Tutto ruota attorno ai temi dell'avidità, del tradimento e della lussuria, eppure qualcosa non va come dovrebbe e il film non ha il successo che ci si poteva prefigurare tanto che non viene amato neppure dai fan.
Anche Sette Pistole per un Massacro prende la via dell'apocrifo con un titolo, forse voluto ancora una volta da Eduardo Manzanos, che strizza l'occhiolino a Sette Pistole per i MacGregor che Papi & Colombo avevano appena distribuito per la regia di Giraldi. Ancora una volta il cast artistico vede coinvolti gli specialisti del genere, al posto di Steffen subentra Craig Hill nel ruolo di protagonista, c'è anche Piero Lulli, eppure il risultato è persino meno riuscito rispetto a Ringo il Volto della Vendetta, tanto che Marco Giusti si dimentica di menzionare il film nel suo volume Il Dizionario del Cinema Western. Lei però parla bene di questi due western in alcune interviste rilasciate, come li valuta rispetto ai suoi altri western?

M.C.
Ringo il Volto della Vendetta era una storia mia, mi piaceva l’idea della mappa tatuata, dell’altro ho un ricordo molto vago, mi ricordo che Craig Hill era piuttosto incolore.


18.
Per i due western successivi cambia la produzione. Passa al produttore di tortellini Bianco Manini (rafforzato dalla compartecipazione di Ferdinando Felicioni ed Emilio Giorgi), produttore di Quien Sabe? di Damiani. Il livello sale piuttosto notevolmente, nel primo film, Il Suo Nome Gridava Vendetta, lo supporta nello sforzo creativo, stando alla lettura dei credits, Tito Carpi (storico collaboratore di Enzo G. Castellari), nel secondo invece, Un Treno per Durango, viene coinvolto persino Duccio Tessari. Come venivano concepite queste sceneggiature, le scrivevate insieme oppure lei interveniva a lavoro completato per correggere ciò che non gli andava a particolare genio?
Oltre ai nomi di cui sopra, torna ad avere Enzo Barboni alla fotografia e soprattutto dispone di un cast di attori di grande pregio. Nel primo abbiamo il cavallo di ritorno Anthony Steffen, affiancato da William Berger, Claudio Undari, Ida Galli (alias Evelyn Stewart), Raf Baldassarre, Mario Brega e l'acrobata Alberto Dell'Acqua; mentre nel secondo, al fianco del confermatissimo Steffen, abbiamo un cast di primo livello con Mark Damon, Enrico Maria Salerno, Domenique Boschero, José Bodalo e Aldo Sambrell. Dunque dei gran bei cast, sia tecnici che artistici. In particolare, con Un Treno per Durango, ebbe modo di anticipare la piega comica e parodistica che avrebbe preso di lì a poco il genere, dando vita a un tortilla western (una sorta di parodia di Quien Sabe?) altamente spettacolare e divertente come pochi altri sapranno fare. Davvero una primizia che si segnala tra gli spaghetti-western, a mio avviso, più riusciti e forse il suo film di genere migliore. Bellissima, tra l'altro, la girandola di colpi di scena finale... semplicemente wonderful come direbbero gli americani.
Che differenze riscontrò tra questi western e quelli di Manzanos e come furono accolti dagli spettatori?

M.C.:
A proposito di Un Treno per Durango, io scrissi il soggetto, poi con Duccio Tessari elaborammo una scaletta della sceneggiatura e ci dividemmo i compiti. Poi Duccio dovette subappaltare la sua parte a Fernando Di Leo (che non ho mai incontrato), il quale Di Leo andò raccontando in giro di aver salvato il film che faceva acqua da tutte le parti, riscrivendo tutto. Roba da matti, i miei colleghi, tranne Leone e Giraldi, non erano un gran che. Comunque è il mio western preferito. Allora non incassò molto, ma ancora gira in Tv, segno che è vitale.

Il miglior western di Caiano.

19.
Dopo esser ritornato su buoni livelli, nei quattro anni successivi tenta di prendere nuove strade, quasi sperimentali, con film tutt'oggi non facili da vedere e che hanno avuto un successo contenuto. Escono nell'ordine Lovebirds – Una Strana Voglia d'Amare (1969), il già citato Ombre Roventi (1970) e L'Occhio nel Labirinto (1971). Del primo ha ampiamente parlato nella sua autobiografia per cui non le chiedo ulteriori chiarimenti, del secondo abbiamo già detto nel corso dell'intervista, non mi resta allora che parlare del terzo. Si tratta di un giallo psicanalitico, come andavano di moda in quegli anni ormai in periodo di piena esplosione spaghetti-thriller, di coproduzione italo-tedesca e da lei sceneggiato. Cast tecnico e artistico mi sembrano più poveri dei suoi film western anche se ritrova Horst Frank e dispone di Adolfo Celi e Alida Valli. Protagonista è la carinissima, ma poco convincente Rosemarie Dexter. Che ricordo ha di questa attrice?
Il film non di distingue per originalità e mutua il finale didascalico tipico del genere. In seguito, salvo qualche rara contaminazione penso a ...A Tutte le Auto della Polizia, non si confronterà più con il giallo. C'è un motivo particolare o è frutto del mero caso? Quale fu la genesi del film?

M.C.:
Nello Santi, un grande del nostro cinema, voleva fare un film nella sua villa all’Elba e io e Ninì Suriano scrivemmo soggetto e sceneggiatura. Non era male ma la Dexter era debolina. Quanto a Lovebirds, preferisco non parlarne, è stato una somma di errori.


20.
Dopo questo breve periodo, dedicato agli esperimenti e ai tentativi di saggiare nuovi generi cinematografi, ritorna al western e lo fa con quello che è forse il suo film più noto: il pazzesco e originale Il Mio Nome è Shangai Joe (1973). Sulla scia di Luigi Vanzi e di Terence Young che, con Lo Straniero di Silenzio (1968) e Sole Rosso (1971), avevano per primi tentato di miscelare il western alla storia orientale dei samurai, e approfittando del concomitante successo dei film con Bruce Lee protagonista, confeziona quello che è considerato il miglior esempio del c.d. spaghetti-kung fu e che sarà subito imitato dai vari Bruno Corbucci, Tonino Ricci e Antonio Margheriti. Si tratta di film dove, sia per i momenti situazionali estremizzati all'inverosimile (un po' come farà Quentin Tarantino in Kill Bill) sia per l'impiego delle arti marziali, gli stilemi della scuola cinematografica di Hong Kong vengono quasi per fagocitare il taglio tipicamente nostrano. Quale fu il suo pensiero quando gli proposero di scrivere e di dirigere una storia, sulla carta, pazza e coraggiosa come questa? Non temeva di poter cadere nel ridicolo?
Sul protagonista è già stato esaustivo nel suo volume, mi preme ora sottolineare come, a corollario della presenza di questo attore giapponese, vi sia un lotto di attori chiamati a compiere dei piccoli ma gustosi cammei. Si susseguono infatti Klaus Kinski, Claudio Undari, Gordon Mitchell e Giacomo Rossi Stuart tutti chiamati, uno dietro l'altro, a sfidare il personaggio cinese che predilige il karate all'impiego delle armi (presumo il notevole lavoro di coreografie che dovette compiere il maestro d'armi Nando Zamperla). Che rapporti ebbe con questi attori? Per causa di Kinski, circa un ventennio dopo, in occasione delle riprese di Nosferatu a Venezia, si troverà a dover abbandonare il set, si dice addirittura che gli lanciò uno specchio contro, immagino che in questa occasione si comportò bene...

M.C.:
Il protagonista di Shangai Joe non era attore, era un insegnante di arti marziali. L’idea venne a un piccolo produttore, un certo Alfieri e il produttore esecutivo fu Renato Angiolini.
La storia dello specchietto deve essersela inventata Kinski, l’ho già letta da qualche parte e ha raccontato pure che l’ho inseguito sul set con un bastone. Non ho parole e non vale la pena cercarne.
Comunque fare il film è stato divertente, come lo è stato rivederlo a Venezia dove è stato presentato in una rassegna sponsorizzata da Tarantino, che mi aveva invitato in occasione della presentazione del suo ultimo film, ma io stavo male.


21.
Abbiamo parlato de Il Mio Nome è Shangai Joe film davvero pazzesco e divertente, Come andò al botteghino? Oggi lo conoscono praticamente tutti, Tarantino lo ama in modo particolare, probabilmente per la forte componente pulp. Ha mai incontrato il regista americano o ci ha mai parlato? In caso positivo come si è comportato e cosa le ha detto? Qual'è il film di Tarantino che preferisce?

M.C.:
Il film di Tarantino che preferisco è Pulp Fiction ma anche l’ultimo (Django Unchained n.d.r.) è fortissimo.

Antesignano degli Spaghetti Kung-Fu.

22.
Dopo questa breve parentesi a stelle e strisce, torniamo a noi. Il western ha esaurito i propri spunti ed è prossimo a esalare gli ultimi respiri, soppiantato dal poliziottesco. Così dopo un breve assaggio di tardo decamerotico con I Racconti di Viterbury (1973), stringe un accordo con Renato Angiolini della Capitolina Prod.ni Cin.che e si lancia con decisione nella nuova avventura, sposando le mode del momento. Dirige in due anni quattro film di ottimo livello e con grande senso per la spettacolarità, mettendo in scena, tre volte su quattro, copioni altrui (scelta per lei piuttosto inusuale) scritti da sceneggiatori sempre diversi (Pittorru & Felisatti, Clerici & Mannino, Barberio, Longo & Petacco). Probabilmente si tratta del lotto, nel suo complesso, più qualitativo: preferiva il poliziottesco oppure per lei non c'era grande differenza, potendo definire il poliziottesco quale inevitabile evoluzione dello spaghetti-western? C'è un motivo se questi film non li ha quasi mai sceneggiati lei?

M.C.:
(Risposta non data).


23.
Il primo poliziesco che gira, ...A Tutte le Auto della Polizia, è un ibrido molto curioso e particolare, piuttosto distinto rispetto agli altri prodotti facenti parte del filone. Peraltro è il suo primo film che ho visto, registrandolo in orario assurdo in televisione. A una prima parte poliziesca si aggiunge una seconda dai contorni gialli, incentrata sul tema della pedofilia e con forti venature erotiche. Protagonista è il siciliano Antonio Sabato supportato da Enrico Maria Salerno, i quali formano una coppia ben assortita e piuttosto in forma. Alla fine non ne esce fuori un capolavoro, ma è di sicuro uno tra i poliziotteschi che si ricordano per la sua originalità. Le musiche sono di Lallo Gori, cosa può dirci di lui?

M.C.:
A Tutte le Auto… lo considero un film più che dignitoso, andò molto bene. Gli autori della storia, Felisatti e Pittorru erano abili giallisti. Lallo Gori era un cultore di jazz, come me.


24.
Grazie al discreto successo del suo primo poliziesco, gira Napoli Spara!(1976), strutturato su un copione di due specialisti del cinema di genere: Clerici e Mannino. Ebbe dei rapporti con loro o il copione gli fu presentato senza avere possibilità di voce in capitolo?
Il plot è quello collaudato, prende spunto da Napoli Violenta (1976) e ne costituisce una sorta di sequel. Sono collaudati anche i due attori chiamati a fronteggiarsi: da una parte l'italo-americano Leonard Mann (Leonardo Manzella) dall'altra la faccia di cuoio Henry Silva. Che tipi erano?
Al di là del duo di primi attori, il film si segnala per l'aumento dell'azione, il montaggio serrato e una crudeltà fastidiosa con punte di splatter e un epilogo tra i più tristi del genere, un po' sulla scia de La Polizia Incrimina, La Legge Assolve (1973) e antesignano della sceneggiata napoletana con cui farà fortuna il suo ex collaboratore Alfonso Brescia. Che ricordo ha di questo regista che, se non sbaglio, gli ha fatto da aiuto a inizio carriera?
Tornando al film, Napoli Spara! è l'opera dove, forse, si è sbizzarrito di più nella scelta delle inquadrature tanto da rendere la visione decisamente accattivante, pur se penalizzata da uno script che non aggiunge nulla di nuovo se non l'idea della “storia nella storia” con un bimbo protagonista (l'ottimo Massimo Deda) che farà una brutta fine. È il poliziottesco che ha ottenuto il maggiore successo tra i suoi?
Le musiche sono di un altro grande passato dal cinema western: De Masi. Ha un ricordo particolare su di lui?

M.C.:
Allora: Clerici era un mio amico, abbiamo lavorato insieme molte volte. Leonard Mann era un bravo ragazzo con una bella faccia ma senza personalità. Henry Silva un bravo attore e un gran signore. Brescia un onesto mestierante, lontanissimo dal mio mondo.
La crudeltà era niente in confronto a Gomorra e fu voluta da Edmondo Amati che era il produttore. Anche De Masi era un mio amico, non so più quante colonne sonore mi ha fatto. Il film gira ancora spesso sulle TV commerciali.


25.
Il terzo film del genere che esce è, probabilmente, il suo preferito, vuoi per la presenza del suo amico Claudio Cassinelli vuoi perché lo ha completamente scritto lei; di certo è quello che io ritengo il migliore. Sto parlando di Milano Violenta (1976). Ancora una volta, un po' come per il suo primo poliziesco, tenta di dar vita a un prodotto diverso, contaminato. Questa volta si pende dalla parte del noir, avendo a modello di riferimento Fernando Di Leo. Non a caso il protagonista non è un poliziotto, ma un bandito in cerca di vendetta. Quale fu lo spunto di ispirazione che la spinse a confezionare una sceneggiatura come questa?
Angiolini, probabilmente, riduce i capitali, con ripercussione sulla scelta del cast artistico che subisce una flessione qualitativa (a parte Cassinelli, si sente la mancanza di attori carismatici) anche se appare l'ottimo inglese John Steiner con cui poi farà anche il successivo film. Il copione però è il migliore dei quattro polizieschi da lei diretti e Claudio Cassinelli è in gran forma, tanto che alla fine esce fuori uno dei suoi migliori cinque film in assoluto. La regia è dinamicissima, il ritmo sollecito, con un punto di vista di narrazione che, per una volta, porta a simpatizzare per il bandito e non per i poliziotti, aspetto non da poco. Punto di forza sono inoltre le squallide scenografie e la fotografia (Pier Luigi Santi) cupa che contribuiscono a ricreare un'atmosfera malsana. A mio avviso davvero un prodotto di primissima fascia nonostante i limiti di budget, ma che ebbe curiosamente meno successo degli altri (mi risulta un incasso inferiore, di poco, ai cento milioni in Italia). Come è valutato dagli appassionati contemporanei e lo reputa anche lei tra i suoi film più riusciti e perché?


M.C.:
Non ho mai visto niente di Di Leo, perciò non mi sono ispirato a lui, so solo che è un bugiardo. Nel cast c’era un altro bravo attore, prematuramente scomparso, Vittorio Mezzogiorno. Irene Bignardi, allora compagna di Cassinelli, che lesse la sceneggiatura, mi disse che faceva pensare a Melville. E’ tra i miei polizieschi quello che ho amato di più.


26.
L'ultimo poliziesco che gira per conto di Angiolini è La Malavita Attacca... La Polizia Risponde (1977). Torna Leonard Mann, questa volta contrapposto a John Steiner, nei panni dell'eroe solitario, che usa la violenza per reprimere la violenza, calpestando la legge per il bene comune. Il film è il più truce del quartetto, sia per i dialoghi che per gli sviluppi narrativi (poco verosimili), ma è anche il meno inventivo sotto il profilo registico e soprattutto recitativo. Per ovviare tenta di ricreare un contorno fumettistico, sia nella caratterizzazione dei personaggi (ricordo penne/pistola in formato tascabile, personaggi che si esprimono in romanesco coatto e cose del genere) sia nelle interpretazioni. Steiner tende al sopra le righe, Mann invece pecca di espressività.
Come se questo non bastasse, è anche il film con cui esce dal mondo del cinema per entrare in quello della televisione, aspetto che forse glielo farà ricordare con minore simpatia. Cosa può dirci su questo ultimo film?

M.C.:
Ricordo solo che è il film girato più in fretta in assoluto tra i miei e che letteralmente non c’era una lira. La concorrenza della TV si era fatta spietata, era inutile girare un filmetto di quel genere dal momento che ogni sera se ne potevano vedere a decine sui canali privati.

Claudio Cassinelli in Milano Violenta.

27.
Ultimo film su cui le faccio qualche domanda è La Svastica nel Ventre (1977), un'opera piuttosto aliena rispetto alla sua produzione. Nasce sulla scia della moda forgiata da Tinto Brass con Salon Kitty (1975) e da Pasolini con Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), preceduti da Il Portiere di Notte (1973) della Cavani e poi scivolata in erotici altamente perversi con i gerarchi nazisti protagonisti. Pellicole assai estreme, spesso insostenibili nel loro voler indugiare su sesso e nefandezze di ogni specie. Il suo è considerato uno tra i migliori del genere, scritto con la collaborazione di Clerici, sebbene abbia un budget minimalistico e un cast di attori povero. Oggi è divenuto un cult, sorte che penso mai avrebbe pensato all'epoca. Quando glielo proposero accettò con entusiasmo? A chi venne l'idea di girare questo nazi-erotico, ricorda qualcosa di particolare legato alla sua produzione?

M.C.:
Probabilmente fu un’idea di Venturini che commissionò il soggetto a Clerici. Ricordo che girai la Germania a Dobbiaco e il lager al vecchio mattatoio di Testaccio. Poi so che hanno aggiunto delle scene hot per l’estero. La protagonista si chiamava Shirpa Lane, era finlandese e si diceva che fosse stata l’anima di una lussuosa casa chiusa parigina. Mah…

Altro Cult firmato Caiano.

28.
Bene, abbiamo ripercorso in lungo e largo tutta la sua carriera che poi, come ha ben spiegato nella sua autobiografia, proseguirà in RAI. Ha rimpianti particolari su qualcuno dei film di cui abbiamo parlato, magari un attore che avrebbe voluto avere ma che non gli è stato preso oppure una sequenza che avrebbe voluto girare ma che le è stato impedito ovvero la delusione per non aver avuto un po' più di tempo, un po' come era solito dire Jess Franco?

M.C.:
Sì, avrei voluto avere più tempo ma non ci ho fatto una malattia. Gli attori in generale, a parte quei tre o quattro dei quali sono diventato amico, mi mettevano in imbarazzo, appartengono a un genere a parte che ho sempre sentito un po’ estraneo.
Storie nel cassetto? Ce n’è una che mi sarebbe piaciuto fare per la Tv perché è di largo respiro, si chiama La Città e gli Anni e racconta la vita di una famiglia dagli anni trenta ai sessanta e dell’Italia e del cinema. Ma è un rimpianto moderato, chissà forse sarebbe venuta una cosina esangue.


29.
Dalla lettura della sua autobiografia percepisco un certo amore per la narrativa. È lei stesso a dirlo quando fa riferimento a quell'occasione letteraria che sperava potesse presentargli. Ha mai scritto romanzi o racconti? Recentemente mi è capitato di leggere degli ottimi gialli di Umberto Lenzi, uno persino ambientato nella mia Tirrenia (abito proprio davanti al luogo dove aveva sede gli stabilimenti cinematografici Cosmopolitan costruiti da Giovacchino Forzano e rilevati da Ponti), pensa di poterne pubblicare qualcuno? E in caso di risposta positiva, che tipo di romanzi gli piacerebbe scrivere e quali sarebbero le sue fonti di ispirazione?

M.C.:
Ho lavorato a Tirrenia come aiuto di Grieco in Le Notti di Lucrezia Borgia con Belinda Lee. Era un posto magico, fuori dal mondo, sembrava di vivere negli anni trenta. Bellissimo.
Ho scritto qualche cosuccia: un romanzetto di avventure che si chiama “Forse un giorno a Kandhipur”, puro divertimento di atmosfera vittoriana, poi una raccolta di racconti più o meno noir e una biografia di B.Traven, l’autore del Tesoro della Sierra Madre, un lavoro di due anni, faticosissimo perché Traven ha passato la vita a nascondere le sue tracce. Tutto inedito.
Ho anche conosciuto il figlio di Forzano, un tipo tristissimo che faceva produzione in RAI.


30.
La casa editrice che ha scelto, Il Foglio Letterario di Piombino, vanta un catalogo molto corposo in materia di cinematografia italiana. Oltre alla sua autobiografia è uscito da pochissimi giorni un ottimo volume del giovane ceko Jan Svabenicky caratterizzato da una duplice intervista al regista Aldo Lado e allo sceneggiatore Ernesto Gastaldi. Ha letto qualcuno di questi volumi, come gli sono sembrati e cosa pensa del lavoro di promozione operato da Il Foglio Letterario?

M.C.
Le scelte della casa editrice sono lodevoli, come tutta la sua politica, ma non si può pretendere che mi interessi una biografia di Aldo Lado, con tutto il rispetto.



31.
Quale è il film che gli ha dato maggiore soddisfazione, a livello internazionale? L'hanno mai invitata all'estero o dedicato citazioni particolari che ha riconosciuto in un film straniero?

M.C.:
In Francia apprezzano molto certi miei film, ci sono quei cinefili intellettuali che hanno sviscerato scena per scena roba come Napoli Spara!


32.
L'ultima domanda, cosa sognava di diventare il piccolo Mario Caiano quando era bambino? Dalla lettura della sua autobiografia si deduce che mai avrebbe pensato di fare regista, sebbene lei fosse un figlio d'arte (il riferimento va alla settima arte)?

M.C.:
Prima volevo fare il marinaio, poi, più concretamente, l’archeologo, ma ringrazio il caso, o l’istinto o chissà che che mi hanno spinto verso il mestiere più bello del mondo.

Cinque volumi della Scuderia de Il Foglio Letterario. 
I miei due Spaghetti Western insieme all'autobiografia di Caiano,
al primo volume sulla Storia del Cinema Horror a cura di G.Lupi
e al libro intervista del ceko Jan Svabenicky.

Un grande grazie a Mario Caiano, regista umile e tra i migliori nell'ambito del cinema d'azione italiano, in primis per aver scelto, suo malgrado, di fare il regista regalandoci così almeno una dozzina di prodotti di grande intrattenimento. Un secondo e doveroso ringraziamento, più grande del primo perché personale, per avermi onorato di intervistarlo e di divertirmi nello scrivere le domande e soprattutto nel leggere le risposte, mia vera passione, perché, come dice l'amico Svabenicky: “Per chi scrive di cinema (e non solo di questo, aggiungo io) e non ha esperienza diretta con la realizzazione di un film, è fondamentale tenere di conto del lavoro di chi il cinema lo fa. Molte delle figure professionali coinvolte, a vario titolo, nel mondo del cinema possono fornire la propria testimonianza in maniera tale da dare un contributo autentico alla storia del cinema.”

lunedì 17 novembre 2014

Recensione Saggi: LA SVASTICA NELLE TENEBRE - Nazismo Magico (di Marco Castelli)


Autore: Marco Castelli.
Genere: Saggio sociologico/storico.
Edizioni: Il Foglio Letterario.
Anno: 2006.
Pagine: 164.
Prezzo: 15 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Evergreen targato Il Foglio Letterario, pubblicato nel 2006 da Marco Castelli e riedito, sempre per la casa piombinese, nel 2012 in una versione più completa e dotata di altra copertina.
Il volume si propone l'obiettivo, perfettamente riuscito, di gettare luce nella zona d'ombra che avvolge i dodici anni più bui della storia degli ultimi tempi, attraverso un'ipotetica lente di ingradimento applicata sulle ragioni di fondo messe a giustificazione (ma si può poi utlizzare un termine del genere al cospetto della mostruosità?) degli orrori che sarebbero scaturiti strada facendo. Castelli, autore genovese laureato in scienze politiche e iscritto all'albo dei giornalsti pubblicisti, affronta la bestemmia all'umanità costituita dal movimento nazionalsocialista tedesco (se esistesse davvero un Dio severo la Germania sarebbe stata cancellata dalle cartine geografiche, oggi invece è di nuovo a dettare regole e a proporsi quale nazione guida) interessandosi soprattutto degli aspetti apparentemente più marginali del movimento stesso, ma che in realtà ne tracciano l'anima, è il caso di dire, luciferina. In altre parole, si parla della genesi e della nascita del movimento, proseguendo con la sua evoluzione fino a giungere alla caduta della Germania per mano delle forze alleate. Il tutto viene gestito in modo settoriale, senza un filo conduttore a fungere da collante tra un capitolo e l'altro. Così il lettore si troverà ad affrontare trentatre capitoli monotematici, che possono essere letti anche in un ordine diverso da quello di impaginazione e che vengono incentrati su altrettanti aspetti del nazismo. Lo stile è schematico, con prosa semplice e sintentica proposizione dei vari temi, in modo da evitare ripetizioni e da rendere la lettura scorrevole e agevole anche per i neofiti.

La particolarità del testo sta nel non evidenziare le tematiche più conosciute del movimento, Castelli non si sofferma sullo sterminio dei campi di concentramento, sugli esperimenti genetici o sulle cronache delle battaglie ovvero dei processi a carico dei nazisti sopravvissuti alla II guerra mondiale, ciò che interessa all'autore è fare un'analisi, seppur a grandi linee, completa su tutti quegli elementi che stavano alla base del delirante pensiero nazista. Ne emerge un quadro addirittura più terrificante di quello riportato nei libri di storia, l'immagine di una nazione che ha cercato, indirettamente, di esaudire la profezia di San Giovanni contenuta nell'Apocalisse. Chi altro se non Hitler potrebbe incarnare la figura dell'anticristo descritto nelle sacre scritture? Ipotesi peraltro resa suggestiva dal fatto che, tutt'oggi, non si è in grado di capire chi fosse il nonno di Hitler, senza contare che.quest'ultimo, proprio per evitare che si potesse ricostruire il suo albero genealogico, fece bombardare la città di nascita del padre al punto da raderla al suolo. Non è poi un mistero che uno degli obiettivi dichiarati dei nazisti fosse quello di distruggere il cristianesimo (oltre che la religione ebraica), troppo debole e troppo legato alla cultura della sofferenza come riscatto per conquistare la via del paradiso, a beneficio di una religione pagano-olimpica riconducibile alle antiche società presenti sulla terra fin dall'alba dei tempi. Il tentativo di decostruzione operato dagli uomini di Hitler però non era limitato alla mera distruzione delle religione, ma si estendeva anche alla scienza giudicata giudaico-cristiana con tentativi fantascientifici che lasciano basiti. Le SS infatti cercavano a ogni costo di screditare le scoperte scientifiche riconducibili agli studi razionali, per sostituirle con altre di impronta magico-esoterica giungendo a sostenere teorie pazzesche come quella della Terra Cava (con tanto di convizione circa la possibilità di popolare i sotterranei della Terra, essendo l'interno della stessa vuoto) o quella del Ghiaccio Eterno.

La copertina della nuova edizione.

Ecco che si ha l'immagine di uno Stato che preferisce concedersi alla teosofia e alla benedizione di riti e invocazioni pagane, con i più alti gerarchi, Hitler compreso, dediti allo studio dell'occulto e della tradizione culturale della Germania. E' di fatti un grosso errore credere che la deriva anti-giudaica sia una diretta conseguenza dell'ascesa al potere di Hitler. Fin dagli inizio del '900, situazione poi aggravata dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, negli ambienti massonici tedeschi aveva già iniziato a diffondersi la cultura della superiorità della razza ariana (perché dotata di caratteri e qualità mentali simili a quelle degli dei) e la necessità di ricostituire l'antico popolo ariano mediante un controllo genetico da effettuare prima di procedere agli accoppiamenti tra uomini e donne. Ne esce fuori, come peraltro fu messo in atto dalle SS con la costituzione delle Lebensborn, una sorta di procreazione e di famiglia concepita in forma di allevamento di purosangue ariani, un po' come aveva teorizzato Platone ne La Repubblica. Una selezione diretta a creare l'uomo superiore, una creatura che possa recuperare le virtù e le qualità psichiche proprie degli antichi fondatori delle civiltà perdute di Atlantide e Agarthi. In tutto questo non c'è spazio per gli ebrei che vengono visti come popolo alieno, causa ultima di ogni male, e con loro per il cristianesimo. Questi ultimi sono solo uomini di serie B da assoggettarsi al controllo e ai voleri della razza superiore che deve essere esonerata da ogni lavoro.

Nel testo sono contenuti interessanti capitoli solo marginalmente connessi al nazismo come quello dedicato all'ordine esoterico della Golden Dawn, al mito di Agarthi o alla ricerca del Sacro Graal ovvero quello dedicato all'occultista per eccellenza: Madame Blavatsky. Assai chiari invece sono le delucidazioni sui Protocolli dei savi di Sion - falso documento storico fondamentale per accrescere l'odio razziale nei confronti degli ebrei (c.d. mito della cospirazione mondiale ebraica) accusati di ordire un piano segreto per il crollo della società al fine di assumere il controllo del mondo - sulla nascita ed evoluzione del reparto delle SS (sorta di nuovo ordine di cavalieri teutonici che, a guerra terminata, avrebbe dovuto gettare le basi di un nuovo ordine mondiale) con tanto di descrizione dei metodi seguiti dalla scuola di formazione di Bad Tolz. Interessanti, ma da approfondire, i capitoli dedicati alla tecnologia segreta nazista (bella la teoria sui foo fighter definiti quali "armi di disturbo piscologico" per i piloti di aerei avversari) e al mistero italiano relativo al Gabinetto RS/33 gravitante attorno alla presunta caduta sul territorio italiano di un UFO.

Inevitabile poi la filosofia machiavellica del c.d. il fine giustifica i mezzi, con l'alto comando tedesco intento a finanziare ricerche sull'impiego di droghe tese sia a favorire l'estasi dei soggetti dotati di poteri medianici al fine di entrare in contatto con i Maestri nascosti e ricevere da questi le coordinate per avere la meglio sugli avversari, sia per aumentare la resistenza dei soldati al punto da renderli alla stregua di automi sempre pronti a combattere. Una filosofia, peraltro, scevra dall'etica militare che non accetta segnali di resa o di rispetto verso il nemico, ma che mira solo a sopprimere in vista dell'obiettivo finale costituito non dalla pace, ma dalla conquista bagnata dal sangue del nemico.

Tra i limiti del testo, credo superato dalla nuova edizione, si segnala l'assenza di un indice finale, lacuna che rende leggermente più difficoltosa la lettura.

Berretto S.S.

Concludo sottolineando questo passaggio del testo, emblematico, come se non bastasse quanto già noto in ordine ai massacri perpetrati dai nazisti, a comprendere l'oscurità e il pericolo che il mondo ha attraversato nello scorso secolo: In occasione dell'annuale autocelebrazione del regime a settembre nella città di Norimberga, al posto di Gesù sulla croce, è innalzato un giovane tedesco nudo sui quattro bracci della svastica... Nel 1934 von Schirach, leader della gioventù hitleriana, affermerà: "La distruzione del cristianesimo è implicitamente riconosciuta come un obiettivo del nostro movimento, anche se non può essere annunciata ufficialmente." Il Mein Kampf mira a sostituire la Bibbia nelle case di migliaia di tedeschi, il partito lo raccomanda come regalo di nozze per le giovani coppie e ben presto, nel 1934, è istituzionalizzato nelle scuole tedesche il binomio Messia-Hilter con tanto di canzoni natalizie reinterpretate e persino bambini che recitano una preghiera prima dei pasti all'indirizzo del cancelliere. 
Pratiche e usi, quelli appena riportati, che evidenziano il delirio di onnipotenza e di arroganza di un'intera nazione caduta nelle mani di un governo di psicopatici dediti a ogni forma di blasfemia.



sabato 15 novembre 2014

Recensione Autobiografie: MARIO CAIANO. Autobiografia di un regista di B-Movies (Mario Caiano)


Autore: Mario Caiano.
Genere: Autobiografia.
Editore: Edizioni Il Foglio.
Anno: 2014.
Pagine: 180.
Prezzo: 14,00 Euro.

Commento di Matteo Mancini.
Piacevolissima sorpresa offerta dall'ampio catalogo delle Edizioni Il Foglio che propone l'autobiografia di uno dei pionieri del cinema western italiano, nonché abile regista di genere nostrano con poco meno di una trentina di titoli e svariate collaborazioni per il circuito televisivo. Mario Caiano è curiosamente conosciuto per una serie di titoli legati alla parte finale della sua produzione cinematografica, con B-Movie quali Il Mio Nome è Shangai Joe (1973), Milano Violenta (1976) e La Svastica nel Ventre (1976). Eppure il valore del regista romano è da ricercarsi in altre opere, pellicole in cui veniva preferito dai produttori nostrani ai registi spagnoli, per la notevole bravura nel dirigere le scene di azione, e addirittura a un tale che rispondeva al nome di Sergio Leone. A quest'ultimo riguardo sono ormai leggendarie le storie connesse ai due film, Le Pistole non Discutono (1964) e Per un Pugno di Dollari (1964), prodotti in contemporanea dalla Jolly Film, con l'opera di Caiano nata quale prodotto di punta rispetto a quella di Leone.

All'alba degli ottanta anni, Mario Caiano ha così deciso di raccontare in un libro, dallo stesso scritto, la propria storia. Un'avventura nata quasi per gioco, sulla scia del lavoro del padre Carlo, noto produttore cinematografico, e portata avanti per inerzia in attesa di qualcosa di meglio. E' lo stesso Caiano a esprimere bene il concetto rammaricandosi per l'approccio giovanile avuto nei confronti della settima arte: "Non posso fare a meno di dolermi della mia leggerezza, della supeficialità con la quale mi buttai nel mestiere, di quel sentimento molto simile al disprezzo che nutrivo per questo nell'inconcludente convinzione che il cinema fosse solo un parente povero e meno dotato, un parvenu tra le più nobili arti delle lettere, della pittura, della musica... Mi sentivo prestato a quel lavoro in attesa di tornare a qualcosa di più nobile... Ho sognato per anni di vincere la lotteria di un bel libro o qualcosa del genere."

Mario Caiano che esibisce la Vhs di uno dei suoi film più riusciti:
Amanti d'Oltretomba.

La passione per la narrativa è evidente in Caiano, la si carpisce non solo dai retroscena legati all'attesa per la produzione di un film o per il completamento delle riprese bloccate per la mancata elargizione dei fondi necessari alla chiusura del progetto - tempi morti in cui il "nostro" si dilettava nella lettura dei classici (Conrad, Stevenson, Proust) - ma emerge in modo evidente dall'analisi del testo qui oggetto di esame. Caiano struttura la sua autobiografia in modo atipico, molto più vicino a un romanzo di viaggi che a un'opera aneddotica ricca di curiosità e ricordi tecnici. Lo si capisce subito, fin dalla lettura del primo capitolo che non parte all'inizio della sua carriera ma prende le mosse da un direttore della fotografia, Julio Ortas, e dalle usanze dello stesso fuori dal set e di tutte le maestranze spagnole ai tempi dei primi western girati in Almeria.

Caiano si dimostra molto più interessato a rispolverare dagli angoli della memoria i ricordi connessi alle dozzine di viaggi sparsi in giro per il mondo, dall'Africa all'Asia, passando per l'intero continente americano e proseguendo con l'Europa. Viaggi il più delle volte collegati alla realizzazione di qualche film o documentario, caratterizzati quasi sempre dallo spirito di avventura, con capitali ridotti all'osso e una telecamera sempre presente sotto il cappotto per rubare immagini laddove le normative o la riservatezza imposta dagli usi locali lo vietava. Ne deriva una serie di resoconti molto dettagliati sugli usi delle popolazioni indigene, sulla tipologia dei cibi mangiati e sulle condizioni di vita dei paesi del terzo mondo.

Non mancano, chiaramente, gli aneddoti legati alle esperienze sul set, in particolar modo quelli riconducibili ai rapporti con i produttori cinematografici e i dirigenti RAI ("nella stragrande maggioranza, burocrati privi di fantasia, incapaci di entusiasmo") anche se l'autore tende a parlare in generale, quasi volendo evitare di scendere nei particolari specifici. In altre parole, Caiano affronta la materia utilizzando la propria esperienza per parlare del mondo cinematografico e di quello televisivo (parla degli orari pazzeschi e dei carichi di lavoro, delle temperature rigide o torride con relative condizioni di vita sui set, della gestione degli attori orchestrata su condizioni di parità e non di supremazia e degli escamotage, ad esempio, adottati per evitare che venissero rubate porzioni di cibo destinate a fungere da scenografia), sottolineandone i difetti attribuibili alle ingerenze politiche e a un atteggiamento di fondo oscillante tra l'incompetenza e la volontà di incamerare denaro (con capitali intascati anziché messi a disposizione del regista) anche a discapito della qualità dei film (fenomeno intensificatosi negli ultimi anni, quando alla passione è subentrato uno spirito più legato alla volontà di fare affari). Dunque ne esce fuori un'autobiografia sviluppata a macchia di leopardo, infarcita di visioni personali ad ampio raggio (ivi comprese politico/religiose), in cui l'analisi dei singoli film viene ridimensionata a elemento di spunto per parlare di altro tanto che sulla maggioranza di questi film (nonché sugli attori avuti a disposizione, fa eccezione Frank Wolf a cui vengono dedicate una decina di righe) Caiano non spende parola. Ben diversa, invece, è l'attenzione agli inizi da aiuto-regista e da stunt-man, soprattutto sulla descrizione delle esperienze maturate al fianco di Sergio Grieco (sono dispensati aneddoti anche su altri colleghi, tra i quali Cerchio, Mastrocinque e Freda, e produttori del periodo, a partire da Harry Joe Brown, assai odiato per gli atteggiamenti da autoritario isterico), maestro ampiamente apprezzato da Caiano. Si evince da tale impostazione una sorta di presa di distanza del regista dalle sue opere, da leggersi alla stregua di un rifiuto, più o meno inconscio, dettato dalla convinzione di non esser riuscito a fare quanto i sogni avrebbero preteso. Tale tesi è suggerita dal capitolo in cui l'autore rimpiange di non aver sfruttato l'unica occasione capitatagli per realizzare un film autoriale, un po' come se le altre opere fossero di livello marginale, girate per mere ragioni alimentari. Caiano non tradisce dunque il proprio approccio umile, dimostrandosi fin troppo severo con se stesso. E' difatti innegabile che molti film del regista abbiano intrattenuto e divertito migliaia di spettatori, mettendo in evidenza una tecnica invidiabile e all'avanguardia al punto da trasformare questi film in opere immortali, penso, oltre ai titoli già ricordati, all'eccelso gotico Amanti d'Oltretomba (1965), al tortilla-western comico Un Treno Per Durango (1967) o al pionieristico, seppur meno qualitativo, Il Segno del Coyote (1963) ovvero all'ibrido sospeso tra giallo e poliziesco ...A Tutte le Auto della Polizia (1975). Ciò nonostante, pur se acclamato da registi come Quentin Tarantino, Caiano si duole scrivendo: "Quando uno comincia in un certo giro poi è difficilissimo uscirne, cambiare genere, si viene classificati per sempre, bollati come registi di serie B."

La locandina del film prodotto dalla Jolly Film come film di punta
sovraordinato, in partenza, a Per un Pugno di Dollari.

In conclusione l'autobiografia di Caiano è un libro strano, in grado di distogliere la mente alla maniera di un romanzo ma anche di deludere i fan accaniti del cinema di genere, perché poco focalizzata sulle singole pellicole e sui personaggi che le hanno rese indelebili. Poco commerciale e, al contempo, molto personale. Stile brioso, di facile lettura.

Chiudo con una frase di Caiano, relativa al film Il Segno di Zorro (1962), che mi ha particolarmente divertito e che può rendere bene l'idea sulla ragione sottointesa alla realizzazione di certi film: "A ricordarmi questo lavoro, ogni anno mi giunge dalla corrispondente americana della SIAE un piccolo assegno: la percentuale a me spettante dei diritti di sfruttamento come regista italiano del film."


giovedì 6 novembre 2014

Recensione Narrativa: IL RAGNO e altri racconti del terrore (Hanns H. Ewers)


Autore: Hanns Heinz Ewers.
Genere: Antologia Fantastica/Terrore.
Editore: Edizioni Del Bosco.
Anno: 1972.
Pagine: 192.

Commento di Matteo Mancini.
Hanns H. Ewers è considerato, forse in modo un po' troppo pomposo, come uno dei principali maestri della letteratura fantastica tedesca di fine '800-inizi '900. Chi effettua certe lettura può infatti trovarlo spesso paragonato ai grandi Ernst T.A. Hoffmann, Gustav Meyrink e Alfred Kubin, pur essendo dotato di minore estro visionario. L'antologia qui oggetto di esame, edita nel 1972 dalle Edizioni Il Bosco per la collana Il Sigillo Nero, è una delle poche tradotte in Italia di un autore conosciuto soprattutto per l'intenso studio dell'opera di Edgar A. Poe (celebre il saggio scritto nel 1906 dedicato al grande scrittore americano) oltre che per i romanzi Mandragora e L'Apprendista Stregone più volte trasposti sul grande schermo.

Avvocato mancato, figlio di un pittore e grande appassionato di narrativa fantastica e occultismo, Ewers abbandona sovente la terra di origine, la Germania, per compiere viaggi in giro nel mondo (celebri le sue cronache di viaggio). La passione per il peregrinare nel mondo diviene una caratteristica specifica delle storie dell'autore originario di Dusseldorf, solito ambientare i racconti in città e nazioni diverse, dal Sud America, passando per gli Stati Uniti e da questi all'Africa e all'Europa, per trasporvi usi e leggende locali.

L'opera di Ewers non è limitata alla narrativa e alla saggistica, ma si estende alle opere teatrali e alle collaborazioni in alcuni film simbolo dell'espressionismo tedesco come Lo Studente di Praga (1913) e Westmar (1933).

Apprezzato inizialmente dall'ambiente nazionalsocialista, tanto che lo stesso Ewers si iscriverà al partito avendo numerosi incontri con Adolf Hitler, finirà per essere messo al bando nel 1935 dagli stessi uomini che lo avevano sostenuto fino al punto da esser costretto a cessare la propria attività creativa e di vedere proibire la lettura delle sue opere.

Hanns H. Ewers.

Nell'antologia oggetto di esame vengono proposti otto elaborati tendenti al macabro piuttosto che al fantastico. Emerge, in quasi tutti i testi, l'ossessione (forse dell'autore) pessimista verso la donna, vista nel simultaneo ruolo di musa ispiratrice e di fonte di assuefazione passiva (eloquente La fine di John Hamilton Llewellyn); una creatura divina e, al contempo, maledetta che conduce, alla stregua di una novella Eva, alla caduta dell'uomo in un oblio di perdizione (talvolta mentale, talvolta mortale) determinata dall'impossibilità di rendere duraturo ciò che sembra avere la consistenza del sogno (il riferimento va all'amore, in un'ottica dal valore di una poetica nera). Manifesto di quesa concezione è Il Ragno, racconto datato 1907 tra i più tradotti e conosciuti dell'autore. Il testo ha una costruzione su base giornaliera (il protagonista scrive un diario), funzionale a riflettere la crescente dipendenza che consuma un giovane rimasto infatuato dalla visione di una ragazza che lo contempla tutti i giorni da una finestra. Ewers tratteggia i contorni di una storia dall'intelaitura gialla. Abbiamo un ragazzo che si prodiga nell'aiutare la polizia per risolvere il mistero di tre suicidi verificatesi, a stretto giro di posta, all'interno della stessa camera di un albergo. A nulla servirà ogni tentativo di interrompere la serie, il ragazzo finirà per farsi coinvolgere da una giovane, che lo spia da una finestra del palazzo dirimpettaio, in un gioco di comunicazione gestuale  che lo trasporterà in una spirale di dipendenza mentale tale da inibirne la volontà e i centri nervosi (proprio come potrebbe fare un acido).
Ewers usa quindi gli stilemi del racconto fantastico (siamo alle prese con una ghost story) per parlare di ossessioni, comportamenti indotti e suggestioni. Bella la descrizione dell'accoppiamento dei ragni con la femmina che uccide il maschio (metafora che, ancora una volta, richiama il tema preferito dell'autore) e il protagonista, incosciente (visto l'epilogo), che si compiace di non essere un ragno. Storia quindi interessante, soprattutto per il suo essere futuribile tanto da dare l'idea di alcuni comportamenti contemporanei legati ai social network con utenti incollati ai computer e poi incapaci di intessere relazioni sociali basate sul linguaggio verbale (proprio come la relazione che lega il protagonista alla misteriosa ragazza con cui è in comunicazione gestuale).

Notevole, per le descrizioni e la cura nella ricerca documentale di certe pratiche haitiane, è La Mamaloi. Ewers utilizza il format del racconto breve per parlare di voodoo, protagonista è un tedesco emigrato nell'isola caraibica per truffare le popolazioni locali vendendo oggetti spacciati per elisir di salute e per avere rapporti sessuali di natura pedofila (aspetto alquanto irriverente per un elaborato del primo novecento). L'uomo scopre di avere tra i maggiordomi al suo soldo una sacerdotessa voodoo di cui si innamora, venendo contraccambiato. Deciso a partecipare a un rito voodoo, prenderà parte a un'orgia di sangue, sesso e morte dove conoscerà il lato oscuro della propria donna; quest'ultima, da premurosa e dolce, condurrà il rito, strangolando una bambina di cinque anni, oltre a sgozzare galline, caprette e abbandonarsi a una serie di accoppiamenti sessuali casuali con astanti ebbri di rhum e sangue umano misto a quello animale. Finale di racconto cattivissimo e melodrammatico (lettera di addio della sacerdotessa disposta a sacrificare il figlio per amore del marito), col protagonista punito per aver liberato un ragazzo scelto dai preti voodoo per esser sacrificato in un loro rito.
Ewers condisce il racconto con un velo di ironia e con svariate spiegazioni sui riti e sulla storia haitiana. Simpatico il passaggio, atto a caratterizzare la spregiudicatezza e la razionalità del protagonista (uomo tutt'altro che superstizioso, a differenza degli indigeni), in cui il narratore si duole del fatto che un suo vecchio socio non gli abbia ceduto alcuni scheletri tra quelli che era solito tenersi in casa. Ecco il passaggio: "Il presidente Salomon, quella vecchia ganascia, anch'egli zelante propagandista del culto voodoo. Avevo spesso sentito dire che il suo successore, Hippolyte, non era diverso da lui, ma il fatto che conservasse gli scheletri delle sue vittime, lo mette lo stesso in una luce piuttosto simpatica... Alla sua morte, fu trovata nei suoi appartamenti tutta una serie di questi scheletri; avrebbe anche potuto cedermene qualcuno, abbiamo fatto tanti buoni affari insieme!"
Al di là di queste parantesi di umorismo nero, resta un grande racconto, a mio avviso il migliore della raccolta, intriso di un orrore crescente, orrore che però resta ancorato alla realtà di certe pratiche. Si parla infatti di riti di magia nera, invocazione di demoni che non si materializzano ma a cui vengono tributati bambini e animali poi sbranati, squartati e abbandonati nella notte. A tratti assai disturbante nella sua truculenza documentaristica.

Segue, più o meno, la stessa via Il Cuore Trafitto (titolo avente significato ambivalente e metaforico), elaborato scritto in Francia nel 1903. Ancora una volta Ewers propone una cronaca di fatti verosimili dai contorni macabri e crudeli. Per l'occasione ci spostiamo a Providence, terra madre del grande H.P. Lovecraft, con un banchiere globe trotter chiamato a risolvere il dramma di una giovane ragazza di cui si è invaghito. Quest'ultima è ossessionata dall'impossibilità di tumulare il cadavere del padre in un cimitero consacrato. L'uomo, infatti, si è suicidato in condizioni di capacità di intendere e di volere e dunque commettendo, per la legge del Rhode Island, un reato punito con l'inibizione alla sepoltura in terra consacrata e l'obbligo di essere gettati a bordo strada in una fossa di acqua e fango, dopo aver subito il perforamento del cuore con un paletto di legno.
Ewers descrive in modo minuzionoso tutte le pratiche, mettendo in scena un'eccezionale squarcio di storia dal forte retrogusto necrofilo, in cui il protagonista dissotterra il cadavere, in una notte di pioggia e gelo, per poterlo poi far pervenire a chi sarà disposto a ospitarlo in terra consacrata. Racconto quindi duro e crudo che mette in chiara luce le pratiche di polizia mortuaria del Rhode Island relative alla sepoltura dei suicidi. Al di là del contenuto macabro, Ewers porta ancora la storia sul tema dell'ossessione verso la donna. Il protagonista resta infatti infatuato dalla giovane che lo ha ingaggiato (promettendo il proprio corpo a titolo di corrispettivo) per il trafugamento della salma padre, al punto dal non scrollarsela di mente anche a distanza di anni. Fredda, indisponente e calcolatrice, la giovane si concede per tornaconto personale a chi si offre di aiutarla. Alla fine andrà con tutti meno che col protagonista, il quale rifiuterà, soffocando il proprio impulso animale, di avere un rapporto sessuale con la stessa per ragioni di orgoglio. Eccezionale la descrizione finale che caratterizza a dovere la personalità della donna: "Lady Brougham legge Stendhal, un letterato per il quale l'amore non è che matematica, algebra, numeri, equazioni!"

L'Apprendista Stregone, in Edizione Francese. 

Questi sono i tre racconti capaci di segnalarsi tra i migliori dell'intera antologia, deludono invece gli altri cinque tra cui si distinguono La Mummia e Il Ghigno. Il primo è un racconto non molto originale, ben scritto e con uno sviluppo crescente, in cui Ewers crea un certo interesse crescente nel lettore facendo sorgere interrogativi alquanto macabri circa l'attività lavorativa a cui si interessa il coinquilino del protagonista. Si tratta infatti di un uomo distinto che si fa consegnare le carcasse di alcuni gatti per compiere non ben precisati esperimenti. L'epilogo è piuttosto prevedibile e ha la funzione di spiegare la fine di una giovane ragazza solita ad andare a trovare il protagonista e scomparsa improvvisamente dopo aver avuto un alterco con il coinquilino dello stesso. Emerge ancora una volta l'ironia macabra dell'autore che si discosta però dal suo tema preferito legato alla donna. Più interessante l'altro elaborato in cui viene proposto Oscar Wilde nel ruolo di protagonista. Lo scrittore irlandese racconta un incubo che lo tormenta  da quando è stato incarcerato per oltraggio al comune senso del pudore. E' infatti braccato da un ghigno multiforme che gli rivela che ciò che si pensa essere la realtà altro non è che il sogno di un essere che l'uomo vedrebbe come mostruoso, mentre le immagini di incubo che tormentano gli uomini sono la realtà. Ewers gioca sull'ambiguità e sul concetto di "realtà". In altre parole si chiede cosa sia davvero reale e cosa invece sia sogno (o incubo), andando poi a ribaltare le concezioni comuni attribuite a tali argomenti.

Gli altri tre racconti propongono: la storia di un pittore invaghitosi del corpo di una giovane antidiluviana sottratta dai ghiacciai artici e conservata in una teca frigorifera esposta in un museo (La fine di John Hamilton Llewellyn, testo ancora una volta incentrato sulla caducità e sulla dissolvenza dell'amore); il peregrinare di un pioniere in cerca d'oro in Sud America salvato dalle mammelle di una indios poi condannata a morte per averlo salvato (Due Donne per un Uomo) e la storia di un assurdo collezionista di ambre colate a protezione di animali/insetti e spacciate dallo stesso per naturali (un po' come le zanzare di Jurassic Park), quando invece sono state ricreate ad arte al punto da spingerlo a sognare di compiere un omicidio artistico per poi farlo passare come un corpo di una donna vissura nell'antichità (L'Ambra al Tribunale Criminale). Tema, quest'ultimo, su cui ruotano le già accennate storie de La Mummia e del pittore J.H.Llewellyn.

Ne emerge un quadro conclusivo di un autore cosmopolita, assai recettivo agli usi e alle pratiche proprie dei popoli dislocati tra Europa, continente americano e Africa, con un gusto assai marcato per l'erotismo (più simbolico che descrittivo) e per la figura della donna, vista quale oggetto di desideri intangibili da trattenere nel lungo termine tanto da essere conservato alla stregua di un oggetto da collezione da cristalizzare per vincere gli effetti del decorrere degli anni. Un maestro di arti occulte di cui, tuttavia, non si ha grande sentore dalla lettura di questa antologia, forse un po' troppo sopravvalutata anche per il suo essere di difficile reperibilità, ma che si segnala per un trio di romanzi di grande valore. Volume per collezionisti.

Il dandy H.H. Ewers, qua immortalato
con la sua classica lente monocolare
applicata sull'occhio destro.

Il patriottismo di Ewers in una frase tratta da Due Donne per un Uomo"Amadis de Gaule, il celebre romanzo che Don Chisciotte lesse con tanto entusiasmo. E che aveva letto anche lui, una volta, perché vi alludeva Cervantes e perché uno studente tedesco deve andare al fondo delle cose e rendersi conto di tutto".